Franco Pinna (La Maddalena 1925 – Roma 1977) era un occhio non partecipante. Questa definizione serviva a rendere l’idea di colui che si trova in mezzo a un avvenimento, anche vorticoso, lo annota con la macchina fotografica ma non può, né vuole, prenderne parte. Resta fuori dal nucleo della vicenda per renderla oggettivamente.
Questa caratteristica connotò l’attività di Pinna sin dagli esordi, avvenuti nei panni di direttore della fotografia in un documentario girato nel 1951 nella zona di Comacchio, Canto d’estate (regia di Pier Luigi Martinori e Stefano Ubezio).
Il 1951 è l’anno in cui Franco Pinna decide di fare della fotografia il suo mestiere, e insieme ad altri colleghi fonda a Roma la cooperativa Fotografi Associati, dando slancio al fotogiornalismo italiano, e vita alla figura di fotografo d’assalto, sulla falsa riga dell’agenzia statunitense Magnum. Bisogna ricordare che gli Stati Uniti erano la patria di nascita della rivista Life, in prima linea nella realizzazione di fotografie che hanno fatto la storia, oltre che immortalarla.
Il 1951 è l’anno in cui Franco Pinna decide di fare della fotografia il suo mestiere, e insieme ad altri colleghi fonda a Roma la cooperativa Fotografi Associati, dando slancio al fotogiornalismo italiano, e vita alla figura di fotografo d’assalto, sulla falsa riga dell’agenzia statunitense Magnum. Bisogna ricordare che gli Stati Uniti erano la patria di nascita della rivista Life, in prima linea nella realizzazione di fotografie che hanno fatto la storia, oltre che immortalarla.
A partire da questo momento Pinna, dopo l’iniziale parentesi cinematografica, sposta i suoi interessi verso la fotografica antropologica, e troverà libero sfogo unendosi agli intenti di Ernesto de Martino e Franco Cagnetta, due studiosi di antropologia che realizzeranno una serie di spedizioni nel sud Italia, fondamentali per due motivi: per prima cosa perché faranno conoscere l’Italia agli italiani, cosa che non era così scontata (addirittura, alla fine della seconda guerra mondiale, molti italiani conobbero le condizioni e le usanze del sud grazie a fotografi stranieri come Henry Cartier Bresson o grazie a immagini scattate dai soldati americani). Il secondo motivo che rende importanti le esperienze di De Martino è stata la completa sinergia di tecniche voluta fortemente dallo studioso: al fine di raccogliere quante più possibile notizie su usanze e abitudini del sud, De Martino si circondò di musicologi, antropologi, psicologi e anche di fotografi. Uno in particolare, Franco Pinna.
Gli anni d’oro della ricerca etnografica catalizzarono molte delle energie del fotografo sardo, che una volta tornato da questa esperienza proseguì da solo una sua ricerca sul soggetto umano disurbanizzato, ma non solo.
Si dedicò anche al semplice reportage, continuò con il fotogiornalismo e infine, nel 1964, ritornò al cinema divenendo fotografo di scena per Federico Fellini, proprio quando questi stava lasciando il bianco e nero per entrare a pieno titolo nel colore con Giulietta degli Spiriti.
I set di Fellini erano caratterizzati quasi sempre da un’atmosfera famigliare e di festa, ma Pinna era amato dal regista per il suo essere “non partecipante”, per essere discreto, meticoloso fin all’eccesso: “ Franco Pinna? Una calma da cow-boy in un film di Sergio Leone […] a volte gli chiedevo “L’hai fatta?” e lui mi rispondeva con silenziosi sorrisi […] mi dava sicurezza, perché vedevo che lavorava seriamente, con rispetto verso di me e verso il mio lavoro”. Sono parole dello stesso Fellini che meglio d’altro sanno descrivere il modus operandi di Pinna.
Pinna accompagnò Fellini per la durata quasi totale dell’esperienza cinematografica a colori, operando come fotografo di scena: quando ancora non si usava il video a scopo documentaristico durante le riprese, si affidava al fotografo il compito di immobilizzare il movimento per rendere l’atmosfera del lavoro e di come si creava una scena. Ci restano alcune immagini scattate durante il film-documentario destinato alla televisione, I Clown, forse una delle cose che Fellini ha più amato fare essendo un grande amante del circo. Le immagini che parlano meglio di questo Fellini “circofilo” sono due su tutte: il ritratto dello stesso regista mentre si sta truccando da clown rosso (se avesse potuto stare in un circo avrebbe voluto essere proprio un toni), e l’immagine iniziale del film, un bambino visto di spalle che rimane affascinato davanti a una pista vuota, che ci rimanda in un certo senso al bambino che compare alla fine di 8½, naturalmente il regista stesso. Queste sono le immagini più poetiche, ma non manca la documentazione pura, come i ritratti di scena realizzati per il tributo ai Fratellini, i celebri clown.
In questo senso non sarà stato “partecipante” (così lo amava Fellini!), ma i suoi lavori hanno costituito gli special che poi venivano realizzati sul regista; si è quindi indirettamente reso partecipe della creazione di un mito vedendolo di spalle, proprio come il bambino della foto.
Stefania Ciocca
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